Riconoscere che la lavoratrice è anche mamma sarebbe un primo passo
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Una donna si ritrova a lavorare come se non avesse una famiglia e a fare la mamma come se non avesse un lavoro. Vi suona familiare? Questo squilibrio si genera in un preciso momento: al primo giorno di lavoro della dipendente al rientro dalla maternità. E’ un momento delicato che, se mal gestito, potrebbe portare alla cessazione di una collaborazione. La lavoratrice dovrebbe sentirsi tutelata e adibita alle ultime mansioni da lei svolte o equivalenti prima della maternità obbligatoria. Questo è ciò che esprime la legge italiana.
E’ pure auspicabile un miglioramento delle sue condizioni lavorative, che tengano conto di un periodo di transizione caratterizzato da:
- nuovi equilibri nell’ambiente di lavoro
- necessità di aggiornamento professionale
- nuova routine e gestione familiare
- ri-organizzazione delle attività domestiche
I permessi orari – garantiti dalla legge – sono uno strumento diffuso e utilizzato per seguire il bambino nel suo sviluppo, la nutrizione, la gestione della malattia e le visite pediatriche. Purtroppo persistono in moltissimi ambienti segnali culturali negativi che fanno percepire questi diritti come una sottrazione di tempo prezioso alle attività lavorative:
- le battutine o le insinuazioni dei colleghi nei confronti della collega (Non è più quella di una volta! ci sarà oggi o resterà a casa per il raffreddorino del bambino?)
- le domande inopportune da parte dei responsabili (Per quanto tempo pensi di stare a casa per la malattia del bambino? Ma è proprio necessario il Part-Time? Stai già pensando di fare il secondo figlio?)
Il mito della mamma sempre a casa diventa un’etichetta difficile da rimuovere, anche se l’impegno è massimo da parte della donna che cerca di prendersi i permessi solo per le emergenze. Una donna che rientra al lavoro oltre ad avere un maggior carico mentale (per approfondire il tema vi invito a leggere l’articolo Carico Mentale) deve cercare di sopravvivere al periodo di transito.
La disorganizzazione che può caratterizzare il suo reinserimento in azienda – scrivania assente, mancanza di chiarezza sugli obiettivi, assenza di condivisione di un progetto a lungo termine, demansionamento informale – crea in lei un forte stress. Risultato? Autostima al minimo e produttività compromessa. Con poche cautele si potrebbero evitare queste situazioni.
Eccone alcune:
Parlare e riconoscere che la situazione è cambiata. Sembra banale, ma riconoscere che dopo l’arrivo di un figlio ci sia un cambio di priorità da parte della persona aiuta l’organizzazione a ripensare l’attività nell’ottica del suo reinserimento. Un colloquio con la diretta interessata – nel quale la donna può esprimersi – fa capire ad entrambe le parti quali potrebbero essere le soluzioni da adottare. L’azienda dovrebbe domandarsi: “in che modo la mia dipendente può portare valore aggiunto alla nostra realtà a seguito della sua esperienza e del suo status di mamma?”
Una madre è pienamente consapevole di avere due poteri: il potere di creare e il potere di avere cura degli altri (Libro: A. Vitullo, R. Zezza, “La maternità è un master” – da leggere assolutamente!).
Questi poteri potrebbero rivelarsi un generatore di benessere in azienda. Sfruttarli darebbe un grande vantaggio.
Parlare delle nuove esigenze (di orario e di flessibilità). Programmare delle attività che la mamma lavoratrice possa svolgere per obiettivi e considerare una flessibilità oraria. Nella migliore delle ipotesi lo smart working. Non sono una fan del part-time perchè può sembrare una soluzione buona nell’immediato, ma è svantaggiosa economicamente sul lungo termine. La flessibilità oraria e la possibilità di gestire un progetto aiuterebbe invece a controllare l’affaticamento fisico: tendenzialmente una madre è più stanca perché in molti casi non dorme bene la notte. Avere cura del benessere psico-fisico di una persona aiuta ad individuare facilmente le leve che possono stimolare la sua produttività. Permettere di gestirsi il tempo la aiuterebbe nel recupero.
Invitare all’osservazione e all’innovazione. Una persona che conosce perfettamente l’azienda – le sue dinamiche e le persone – ed è stata per qualche mese fuori nota maggiormente situazioni critiche o eventuali tensioni relazionali. Può segnalarle attraverso la realizzazione di un report con cui proporre un progetto di innovazione e miglioramento di alcune procedure.
Pianificare. Anche questo sembra un passaggio scontato, ma spesso, a causa di un dialogo poco chiaro e di una scarsa comunicazione, il datore di lavoro e la dipendente non si capiscono. Non è prassi comune nominare un referente che gestisca il reinserimento e i responsabili dei team spesso non identificano tra le proprie mansioni il doversene occupare. Invece andrebbero seguiti questi due step:
- Fare un planning delle attività per il reinserimento: prevedere un periodo di aggiornamento mostrando i progetti chiusi e i progetti in corso; fare il punto sulla formazione e valutare se organizzare dei corsi.
- Far trovare una postazione: predisporre una seduta e un bel piano pulito. Sembra incredibile ma in alcuni ambienti questo concetto basilare non è chiaro!
La gestione organizzata di una situazione delicata – come il reinserimento dopo la maternità, spesso sottovalutato o gestito in maniera inadeguata – ha un risvolto sociale: permette ad una donna di lavorare come una professionista e organizzarsi per fare la mamma. Una donna che si sente riaccolta in un gruppo di lavoro e che allo stesso tempo non rinuncia alle cose importanti della vita riuscirà a mantenere quel sano equilibrio mentale e pratico che trasmetterà a tutti quelli di cui si prenderà cura.